Wattpad

 Cos'è Wattpad?

Wattpad è una piattaforma dove autori di tutti i generi pubblicano le loro storie, più o meno corte. Le più brevi sono chiamate One shot, perché si leggono tutte d'un fiato, le più lunghe vengono chiamate Long, ma anche Mini long, e sono costituite da più capitoli. La cosa bella di Wattpad è che tutte le storie, tranne una piccola percentuale, si possono leggere, votare e commentare gratuitamente.

È da Wattpad che è cominciata la mia avventura nella scrittura e, di seguito, vi darò un assaggio delle storie della gatta nera di Wattpad: ChaBlackCat, io...

Le storie riportate qui e pubblicate su Wattpad sono regolarente registrate per cui, se soggetto di plagio, complete di copyrigt.

Solito appuntamento settimanale con gli incipit, o brevi testi, delle mie storie.
Aggiornamenti di seguito...

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Le mie storie:

Il diario di Albus Silente.

Caro Diario,
imbratto queste pagine e inizio i miei racconti in modo un po' infantile, me ne rendo conto, allo scopo di non dare troppo peso, né troppa importanza ai miei racconti, poiché chiunque leggendoli un domani si possa sentire a proprio agio e abbandoni le aspettative ridondati create dall'apparenza che può dare un manoscritto abbandonato sulla mia scrivania, o ritrovato nella mia immensa libreria.
Ci si aspetta di certo che una storia scritta da un professore come me, un preside a dire il vero, possa essere cosa seria, e lo è di certo se l'argomento che si va a trattare è ufficiale come una pergamena ufficiale per il Ministero della Magia, ma in queste pagine io voglio solo lasciare la testimonianza di quanto c'è di straordinario a Hogwarts, frivolezze comprese.

Da quando insegno in questa straordinaria scuola e, soprattutto, da quando sono divenuto preside, ne ho viste delle belle e dal momento in cui il giovane Harry Potter è entrato nel castello ne ho viste anche di  terribili purtroppo, pur dovendo ammettere che la sua banda di amici si è rivelata esilarante e le loro avventure piuttosto avvincenti.
Tutti qui si chiedono come faccia a sapere quasi tutto quello che accade nelle aule, nei corridoi e persino nei sotterranei. Beh, io sono Albus Silente e non ho intenzione di svelare il mio trucco nemmeno su questo mio diario, tutt'altro che segreto. Vi basti sapere che io so praticamente tutto quello che accade nella mia scuola, anche se a volte sono distratto dai bastoncini di liquirizia.
Posso dire solo che ho assistito alle lacrime di alcuni ragazzi ai quali non riuscivano difficili incantesimi o a cui era andata storta una pozione nell'aula del professor Piton. Ho visto le boccacce fatte alla gatta di Argus Filch e mi sono divertito il giorno che, nella sala comune dei Grifondoro, Hermione Granger ha dato del cucchiaino a Ron Weasley. Le ho sentito dire più o meno così: "Solo perché tu possiedi la varietà di emozioni di un cucchiaino, non significa che siamo tutti così!", ancora rido se ripenso alla faccia di quel povero ragazzo dai capelli rossi. Stavano parlando della signorina Cho Chang, della casa dei Corvonero, della quale Harry si era infatuato ed è accaduto lo scorso anno. Anno terribile se ci ripenso, ma temo sia stato solo l'inizio.
Comunque, parlando di Harry Potter e dei suoi amici, mi vengono in mente le loro avventure che non posso ignorare se spero un giorno di rileggere questo diario con il sorriso sulle labbra.

Ciò di cui voglio narrare è appena accaduto e si tratta di Halloween. Sapete, Hogwarts è pieno di ragazzini e giovani adulti, ma è sopratutto un vecchio e misterioso castello. Abbiamo anche dei fantasmi tra queste mura, uno di loro insegna, e altri si aggirano per i corridoi legati in qualche modo a una delle case della scuola.
È accaduto a Halloween, come dicevo, in occasione del complemorte di Nick-quasi-senza-testa. Se sapesse che lo chiamo in questo modo, potrebbe osare trapassarmi o tenermi il muso per giorni. Parlo del povero Sir Nicholas de Mimsy-Porpington, fantasma di Grifondoro, che festeggia la sua morte proprio il trentuno di Ottobre e che quest'anno ha realizzato il suo sogno post mortem: essere accattato alla caccia dei senza testa. So che sembra assurdo ma per far parte di questa particolare organizzazione i partecipanti devono essere privi di testa, devono in pratica poterla tenere sotto braccio e Sir Nicholas purtroppo ha subito una maldestra decapitazione che ha fatto sì che la sua testa non si staccasse del tutto. Tuttavia il mese scorso è riuscito a trovare una testa fantasma ed essere accettato dal gruppo avendo la possibilità di gareggiare al Polo con le teste proprio nel giorno del suo complemorte.

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Aggiornato il 03\01\2022

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A white blody Christmas, Santa Claus sta arrivando in città.

«White!» La radio dell'auto della polizia gracchiò. «White, mi senti?»
Nell'abitacolo vuoto rimbombavano le parole dell'agente Moore, mentre Loris White giaceva supino in mezzo metro di neve fresca, svenuto e quasi assiderato.
«White, dove sei?»
Qualcosa nella neve si mosse. Era la mano dell'agente White che stava rinvenendo, stava per accorgesi di essere quasi morto di freddo, ma non era detto che sarebbe riuscito a raggiungere l'auto per chiedere aiuto. Quando l'uomo aprì gli occhi rabbrividì: si era accorto di essere completamente avvolto nella gelida neve fresca e capì anche che doveva essere rimasto lì per ore, fortunatamente però sembrava riuscisse a muoversi. Piegò pian piano le ginocchia, i fiocchi di neve gli cadevano sul viso, ma lui era talmente freddo da non sentirli posarsi sulla sua pelle. Si issò sulle braccia e gattonò lentamente fino all'auto. Cosa diavolo gli era successo?

Attaccato alla portiera, non riusciva a riordinare le idee, la testa gli doleva e voleva solo entrare e accendere il motore.

Una volta nella macchina girò le chiavi nel quadro e il motore si avviò, insieme al riscaldamento che ci mise qualche minuto a buttar aria calda fuori dai bocchettoni posizionati in vari punti sul cruscotto. White tremava ancora mentre si guardava intorno, quella era un auto della polizia, ma cosa ci faceva lui sdraiato accanto a una macchina della polizia vuota? Cosa era successo all'agente che la guidava? Poi però abbassò lo sguardo sulla sua spalla, la giacca inzuppata portava la toppa di un distintivo della polizia. Lo toccò con dita incerte. Forse l'agente lo aveva salvato e poi gli aveva prestato la giacca, ma ancora una volta si trovò sorpreso nel notare che vestiva anche abiti da poliziotto.

«White!» La voce lo fece sobbalzare. La radio, se ne ricordò: doveva chiedere aiuto.
«Mi sentite?» tentò.
«White, sei tu?»
«Io... Dovete aiutarmi!» Non c'era tempo di spiegare che non sapeva chi fosse, sapeva solo che era rinvenuto in mezzo alla neve e stava per congelare.
«White, dove sei?»
Chi era White?
«Non so dove sono» disse poi incerto.
«Va bene. Non preoccuparti, dimmi solo cosa vedi.»
White cercò di scorgere qualcosa al di là del lunotto anteriore ma la neve lo sovrastava coprendo completamente la visuale, decise così di tentare di abbassare il finestrino del lato passeggero. Fece uno sforzo enorme per girare la manovella ma ci riuscì, ancora intorpidito dal freddo, e vide qualcosa in lontananza.
«C'è un cartello... Dice... SapVille.»
«Sei sulla statale?» chiese la voce all'altro capo della radio.
«Non ne ho idea, qui è tutto bianco.»
«Ok, ok! Loris, non ti preoccupare, stiamo arrivando. Abbiamo preso lo spazzaneve, io e Rupert veniamo a cercarti.»
White non sapeva chi fossero quel tizio e il suo amico Rupert, e non sapeva nemmeno chi fosse lui, ma quelli lo conoscevano, avevano riconosciuto la sua voce e lo stavano andando a prendere.

Rimase minuti interminabili nell'abitacolo che, fortunatamente, si era scaldato. L'auto sembrava sepolta sotto la neve. Non sentiva altro se non il rumore stanco del motore acceso e quando qualcuno bussò il finestrino, White si spaventò, si era quasi appisolato. Senza paura aprì lo sportello.
«Loris, stai bene?» Dalla voce sembrava il tipo della radio.
«Sì» rispose.
«Molla la macchina, è sepolta nella neve, ti portiamo via con lo spazzaneve.»
White annuì, spense il motore e seguì il ragazzo in divisa fino al veicolo guidato da quello che doveva essere Rupert.
«Cosa diavolo ci sei venuto a fare fino a qui con la tempesta di neve, White?» gli chiese lo sconosciuto alla guida.
L'uomo aveva usato con lui un tono confidenziale, ma Loris White non sapeva chi fosse e, cosa più importante, non sapeva cosa rispondere. Il problema non era rivelare un'informazione a degli sconosciuti, il problema era che non ricordava come fosse arrivato fin lì. E che cazzo di posto era "SapVille"?
«Siamo in California?» chiese poi, smarrito.
I due si voltarono di scatto a guardarlo. Erano visibilmente perplessi.
«Nevica così in California?» chiese burbero il tizio di nome Rupert.
No. Non aveva mai nevicato così da quando viveva in California.
«White, ma che cosa stai dicendo?» disse l'agente. «L'hai lasciata la California, ricordi? Ti sei trasferito da tempo a Maple Town. Sei tornato qui dopo quel fatto a San Simeon, la storia di quel ragazzo scomparso. Come si chiamava? Ah, sì! Erik Mc Lane Junior.» Il ragazzo lo fissava e White era sempre più confuso. Non ricordava quasi nulla, ma ricordava che viveva in California. «White, stai bene? Non sai cosa ti è successo? Avevi lo stesso sguardo quando sei tornato dalla California. Giuro, sembrava avessi visto un fantasma in quel posto!»
No, non lo sapeva. Non sapeva più nulla, ma ricordava del caso di San Simeon. E chi se lo sarebbe scordato?! Aveva davvero visto un fantasma e quello che era accaduto al ragazzo, il povero Erik Mc Lane Jr. era stato terribile. Forse quel caso lo aveva davvero spinto a lasciare la California, tanto valeva fidarsi di quelle due persone che sembravano conoscerlo.
«Non ricordo niente» ammise.
«Ok, tranquillo, ti riportiamo a casa!»
L'uomo di nome Rupert guidò accigliato fino al centro della cittadina di nome Maple Town. Tutto era sommerso dalla neve fresca e la bufera non accennava a fermarsi. Continua a leggere


Lupercalia

Mi svegliai che nell'aria aleggiava, densa e statica, una nebbia bianca e fitta che odorava di legna bruciata. Nel buio, dardeggiavano lampi giallo arancio dall'aspetto caldo e invitante. Dal vicolo in cui sostavo spesso a quel tempo, potevo vedere la via principale illuminata di un bagliore infernale.
Con gli occhi stanchi e la testa pesante, cercai di alzarmi, mettendomi prima a carponi sull’asfalto umido e poi in piedi, aggrappandomi alla fredda ringhiera in ferro che proteggeva una vecchia fabbrica dai mattoni rossi a vista.
Feci pochi passi verso il misterioso sciamare notturno, quando vidi chiaramente la luce calda e ondeggiante danzare letteralmente e scorrere, per poi danzare di nuovo e sparire. Non passarono più di una manciata di secondi, forse solo pochi istanti rallentanti dal mio stato di torpore, che ne apparvero altre, altrettanto traballanti.
Pensai di sognare, stavo avendo un incubo. Sicuramente dormivo, infagottato nel mio vecchio sacco a pelo, sormontato da scatoloni rotti e vecchie coperte. Tuttavia, scalzo e infreddolito, non riuscivo a fare a meno di avvicinarmi a quella che sembrava una festa improvvisata che si stava tenendo per strada, in piena notte.
Se fino a poco prima avevo pensato di giacere addormentato, mi trovai a credere di esser diventato matto. Una folla si era riversata per la via. Vidi grosse fiaccole nelle mani di uomini completamente nudi che correvano e saltavano, alcuni di loro ballavano a loro agio. Nessuno badava a me e ne fui grato perché mi sentivo imbarazzato. Mi nascosi appena dietro l'angolo del muro, intenzionato a capire di più, quando notai che il bagliore delle torce accese aveva per un attimo offuscato la vista di grandi falò, disposti lungo tutto il viale. Attorno al fuoco più vicino, gli uomini ridevano allegri. Spogliati dei loro averi, dai propri stati sociali e con i loro vizzi gioielli ondeggianti, sembravano tutti spudoratamente uguali. Di nuovo mi sorpresi di veder arrivare, in lontananza, un corteo di donne vestite in modo inusuale. Erano solenni, agghindate come romane, tutte in fila e con dei cesti di fiori traboccanti appesi alle braccia. Venivano avanti, sorridenti e leggiadre, circondate dalla luce dei fuochi e dagli uomini in festa. In tutti i miei anni di vita e in quegli ultimi dopo il carcere, non avevo mai visto una festa simile. Sentii di dover stare attento perché, man mano che quelle donne avanzavano, percepivo l'angoscia invadermi le viscere. Continua a leggere




L'amore uccide

Valentine Bell era una giovane donna altolocata, o almeno lo era all'epoca del suo primo matrimonio. Questo, terminato con la morte del marito, il conte Benjamin Hall, la sera di San Valentino, l'aveva lasciata più ricca di quanto non fosse prima del matrimonio, ma circondata dalle malignità che giravano sul conto della morte del conte e ben pochi amici.

La giovane donna viveva nella villa di famiglia, Villa Bell, già pietra di uno scandalo e una tragedia avvenuta anni prima, grande quanto un piccolo castello e piena di stanze vuote. Diventata vedova, Valentine aveva smesso di dare feste sfarzose, ma la società le imponeva di organizzare, di tanto in tanto, dei tè in giardino e partite a carte in salotto con amici stretti e parenti. Questi ultimi, immuni ai pettegolezzi, passavano volentieri le vacanze alla villa, che aveva alle sue spalle un fantastico giardino che era sempre stato curato alla perfezione.
Valentine amava passeggiarvi, soprattutto durante la bella stagione. Lo aveva sempre fatto, infatti da quando era ragazzina vi passava le ore per respirare il profumo delle rose fiorite.

Un giorno di primavera in cui c'era un grande sole, lei indossava un pomposo abito nero e camminava nel labirinto di siepi di rose rosse, quando udì dei passi alle sue spalle.
«Valentine… Cugina, dove sei?» Era George, suo cugino da parte di padre; la ragazza non aveva dubbi.
Lei lo accolse con un gran sorriso, tenendo una rosa in mano, e quando George le presentò un amico in viaggio con lui, Simon Bailey, arrossì e dall’emozione si punse un dito. Le parve strano, poiché credeva di aver tolto tutte le spine dallo stelo prima di coglierla, ma non ci rimuginò sopra.

Quella stessa sera Valentine era radiosa. Aveva abbandonato l'abito nero in favore di quello da cocktail, di un brillante rosa antico. I tre cenarono e, trasportati da fiumi di vino bianco, risero tutta la sera. Lei si perse negli occhi azzurri del forestiero, e le parve di essere spogliata da quelli di lui.
«Io vado a letto!» aveva detto George sul tardi. «No, no, Simon, stai pure… Tu e Valentine avete molto di cui parlare.»
Alla ragazza era parso che il cugino tentasse di creare intimità. Più volte infatti, nelle sue sporadiche visite, George aveva manifestato preoccupazione per lo stato di solitudine di Valentine e sulle voci che giravano su di lei. Dopo la morte del marito, Benjamin, riemergevano bisbigli a proposito di una storia tra Valentine e il figlio del giardiniere, avuta quando entrambi erano solo ragazzini. Il giovane Noah però era morto disgraziatamente e aveva lasciato una Valentine distrutta dal dolore ma, fortunatamente, con tutta la vita davanti a sé. 
«Se ti fidanzi di nuovo, sicuramente le voci su quella storia e sulla morte di tuo marito cesseranno e tu torneresti felice» le aveva detto più volte George, riferendosi anche a Benjamin, morto probabilmente di infarto tra le sue braccia, e ora che si trovava a ridere con quel ragazzo, bello e di buona famiglia, aveva deciso che forse suo cugino aveva ragione.

E così accadde, perché lei era bella e lui ne fu stregato.
Simon si trasferì nella villa la sera delle nozze; era settembre e i mesi che seguirono furono davvero belli; la tenuta tornò al suo splendore e la coppia organizzò una festa al mese, compresa la più bella, quella di Natale.

Fu così che febbraio arrivò velocemente.
Una sera i due parlavano sommessamente, seduti a terra, davanti al camino acceso. Accomodati su grandi cuscini, Simon e Valentine sorseggiavano vino bianco.
«Non voglio organizzare una festa per San Valentino, Simon!» Valentine sogghignava, rimproverando l'amato che gli aveva proposto di organizzare l'ennesimo party.
«E non dovremmo festeggiare il nostro primo San Valentino?» protestò lui.
«Non ho detto questo…» Rise, forse nel vedere il broncio del marito. «Voglio festeggiare, ma soli io e te!» la rassicurò e lui si illuminò, mentre un alito di vento li investì, gelido al punto da spegnere il fuoco.
«Cosa succede?» Simon corse verso il divano a prendere una coperta per coprire Valentine. «Le finestre…» Ma si interruppe perché notò che le grandi vetrate del piano terra erano chiuse. Fuori, la luna piena regnava in un cielo terso e scurissimo, illuminando il salone al posto del camino spento. Quella sera andarono a dormire presto, Valentine cercava di rassicurare Simon: «È una vecchia villa, piena di spifferi!» Ma nemmeno lei ne era convinta.

Quando finalmente arrivò San Valentino, i due avevano scordato la faccenda. Simon fece allestire un tavolino davanti al camino, decorato da un mazzo di rose rosse al centro; sapeva che erano i fiori preferiti della moglie. Valentine fece capolino nel salone alle sette di sera, bella ed elegante come sempre, forse di più. Simon e il cameriere la attendevano in piedi e quest’ultimo la fece accomodare. Cenarono e, dopo il dolce, congedarono Miles, che andò a coricarsi nelle stanze della servitù, situate in una dependance distaccata dalla villa.
«Che bella serata!» Valentine era raggiante e anche un po' alticcia. Simon versò altro vino bianco in entrambi i calici. Il camino scoppiettava, sulle pareti danzava la luce chiara delle fiamme delle candele e la stanza odorava di legna bruciata. Simon allungò la mano, cercando quella di Valentine, che gliela concesse, aperta verso l'alto, e lui le passò un dito lungo le linee del palmo, poi, con la mano libera, portò il calice alla bocca, senza distogliere lo sguardo dagli occhi verdi di lei. Quasi si soffocò. Sputò d'istinto il liquido rosso di cui era colmo il bicchiere e la tovaglia bianca si costellò di puntini rossi.
«Ma cosa…?» Era scioccato. Il liquido rosso sangue gli colava dalle labbra e aveva anche il tipico sapore pungente e ferruginoso del sangue umano. «È sangue!» Si ripulì la bocca e rovesciò il vino sulla tovaglia, disgustato. Valentine guardò il suo calice: il vino all'interno era bianco, al contrario di quello del marito. Con lo stupore di entrambi, il liquido si mosse sul tessuto, scivolando fino a formare delle parole che Simon non comprese: “L'amore non muore, Valentine”. Continua a leggere



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Viva viva la Befana

Nella cella più fredda della prigione più sporca di tutta la regione, si narra vi fosse rinchiusa la fanciulla più bella dello stato. Colpevole soltanto di esser bella e, non trascurabile, di aver ucciso. A tutti può suonar strano, ma la fanciulla, nel periodo di Natale, passando sotto un arco fatto di vischio, nella piazza del paese con l'amato, decise di baciarlo. Un gruppo di uomini alticci però li vide e, gelosi che l'uomo potesse baciare un viso così splendido, seguirono la coppia fino a casa. Una volta lì, uscirono allo scoperto cercando di sottrarre la ragazza al suo amato. Vi fu una furiosa colluttazione dove il buon giovane perse la vita e lei, profondamente addolorata, massacrò uno di quei bruti con una mazza sottratta proprio a uno di loro. Questo morì ma nel frattempo si era radunata la folla che, vedendo la giovane con un bastone insanguinato in mano, la prese per assassina.
Fu così che imprigionarono la poverina.

Derisa, picchiata e schernita, la rinchiusero con l'unica colpa di esser stata una bellissima fidanzata. Passarono ben dieci anni, una lunga sofferenza per chi ha il cuore spezzato da un grande amore perduto e i suoi carcerieri spietati, un giorno di un gelido inverno, le buttarono in cella insieme al mangiare, un pezzo di specchio in cui potersi guardare. La donna , appena ne ebbe il coraggio, buttò a se stessa un fugace sguardo. Oddio! Cosa era diventata? Sembrava vecchia, brutta e sul viso butterata. Pianse mille lacrime per il suo bel viso perduto e, la notte del sei Gennaio, usando un frammento di specchio che le era stato donato, si tagliò le vene. Trovarono il corpo della poverina sul pavimento, senza vita abbandonato. Con le stesse risa di sempre, e senza alcun rispetto, buttarono il corpo lì vicino, sulla soglia di una casa vecchia e abbandonata, proprio per dispetto.

Fu poi un miracolo o una magia, che la donna si risvegliò e pensò che fosse solo fantasia. Invece no era tornata in vita, davanti a una catapecchia inanimata e si disse "la farò mia". Passarono anni di rancore, rabbia e dolore in cui scoprì però di avere un potere che mai aveva avuto. Una magia che aveva capito di saper fare: poteva tornare bella o brutta e disse: "posso farlo quando mi pare". Rubò libri da leggere per cultura e per diletto, si innamorò di un Mr Gray galante e quasi perfetto, ma quella lettura gli ricordò il suo amato. Furiosa come una matta che cerca vendetta, un giorno udì qualcuno bussare alla porta della sua casetta, tornò un'avvenente fanciulla e circuì un giovane vestito con abiti in pelle, che guidava spavaldo una motocicletta. Fu una notte spumeggiante ma quando venne giorno scoprì che all'uomo lei piaceva, ma solo per il suo bel volto. Correva l'ennesima notte del sei Gennaio ed ella capì. Fracassò il cranio all'uomo con l'attizzatoio del camino, montò in sella alla motocicletta e corse verso il suo destino.

... Continua a leggere


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The Addams Family and the tales of Halloween

Andava avanti e indietro da almeno mezz'ora. Nel piccolo camerino ingombro, Hayden Seek, si sentiva soffocare. Tutte le stanze del teatro di West Adams erano interrate, illuminate da luce artificiale e come unica fonte di ossigeno avevano piccole bocche di lupo. Il ragazzo camminava schivando appendini colmi di abiti di scena; girando intorno a un grande e inutile divano polveroso in velluto bordeaux e, di tanto in tanto, cercava di rimanere seduto per più di pochi secondi sulla sedia di un mobiletto da toeletta, completo di specchio, che solitamente veniva utilizzato per il trucco. Ma Hayden Seek non aveva bisogno di truccarsi... Ah, sì. Il giovane ed esile ragazzo, carnagione pallida e capelli castani perfettamente ingellati da un lato, si chiamava proprio Hayden Seek, e siccome il suo nome suonava esattamente come Hide and Seek (nascondino) era vissuto fino a quel momento perseguitato dallo scherno di compagni di scuola e amici. Fortunatamente il giovane non aveva mai trovato saggio ribellarsi e venire alle mani, aveva deciso fosse più pratico isolarsi e, esattamente come veniva apostrofato, nascondersi.

«Vieni a giocare a nascondino, Nascondino?» Ecco quello che si sentiva dire quando era più giovane. Si era isolato al punto da voler essere qualcun altro, ed era stato per questo che si era iscritto al corso di teatro.

Ora attendeva impaziente che qualcuno lo chiamasse per l'audizione: era una città piccola quella in cui viveva, non erano tanti i posti disponibili per quel corso che pareva essere molto ambito.

D'un tratto, proprio quando pensava di togliersi il pesante maglione e asciugarsi il sudore della fronte, sobbalzò nel sentire una voce nel corridoio.

«Hayden... Hayden Seek... Ci sei o ti sei nascosto?»

Ecco! Persino lì, persino tra persone adulte il suo nome suscitava battutine. Ma quella sarebbe stata l'ultima volta; Hayden avrebbe dimostrato a tutti di poter essere qualcun altro e tutti avrebbero dimenticato quel suo ridicolo nome.

«Sono qui!» urlò dunque il giovane, stringendo i pugni per darsi coraggio e parlare più forte.

«Tra pochi minuti è il tuo turno... Preparati in corridoio!» La voce annoiata della donna sparì in lontananza. Forse la signora grassottella, era così che Hayden la immaginava, era salita per le scale per seguire le prove sul palcoscenico. Ecco un'altra cosa che il ragazzo faceva per distrarsi: disegnava con la mente volti e corporatura delle persone delle quali sentiva le voci da dove era nascosto. Una volta, il primo giorno di scuola, si era imboscato in uno sgabuzzino del corridoio del piano terra, dopo che certi bambini lo avevano preso in giro. Era rimasto chiuso lì dentro sin dopo il suono della campanella che segnava l'inizio delle lezioni e aveva udito il vociare della bidella, stava sgridando un giovane che correva, così Hayden aveva preso a immaginare la figura della donna e, una volta a casa, aveva scarabocchiato un suo ritratto. Il giorno dopo aveva scoperto che ci era andato tanto vicino, che la bidella avrebbe potuto pensare che il ragazzo l'avesse ritratta osservandola lavorare.

Hayden allora trasse il suo blocco dallo zaino e, con una matita trovata sul fondo dello stesso, abbozzò uno schizzo dell'inserviente del teatro. Subito dopo uscì d'impeto dalla stanza, stringeva il copione che aveva preparato nella mano, la stessa con la quale creava quegli abili disegni, e si incamminò verso il fondo, verso le scale.

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«Ma insomma, ragazzo! Stai un po' fermo con quelle mani... Gesticoli manco fossi un italiano» lo apostrofò l'insegnante di recitazione. Era una donna alta, sicuramente attenta alla linea. Indossava un abito a fiori rosa lungo fin sotto le ginocchia e un vecchio scialle beige sulle spalle. La donnona si sistemò gli occhiali sul naso.

«Ricomincia... Forza!» lo incitò.

Hayden si era quasi perso, distratto dai lineamenti della donna che immaginava di disegnare, per calmarsi.

«Insommaaaa» la donna stava perdendo la pazienza, e il giovane si affrettò a ricominciare.

Ripeté la scena quattro volte e tutte le volte l'insegnante gli aveva detto che non serviva tutto quel gesticolare.

«Vai pure, ragazzo, ma spetta giù di sotto... Ti faremo sapere» concluse.

Hayden obbedì. Scese le scale in legno e tornò verso il camerino dove si era rintanato prima, ma lo trovò chiuso a chiave. Le audizioni stavano per finire e la donna paffuta, che chiamava gli aspiranti attori, stava armeggiando con attrezzi per pulizie in un vecchio sgabuzzino. Il ragazzo appoggiò la schiena contro il muro e si lasciò scivolare verso il pavimento, poi si ricordò che aveva con sé uno zaino al suo arrivo. Si affrettò ad alzarsi e attaccò nuovamente la porta chiusa a chiave.

«È chiusa!» La voce della donna risuonò da lì vicino, da dentro lo sgabuzzino, gli altri attori erano distanti e chiacchieravano tra loro, per ciò non ci fecero caso.

«Il mio...» Furono le uniche parole che riuscì a pronunciare.

«Ce l'ho qui io» disse lei in risposta, senza lasciarlo continuare, come se avesse saputo che lui non avrebbe detto nient'altro. La donna fece un passo fuori dello stanzino, teneva in mano lo zaino di Hayden; andò verso di lui e glielo pose.

«Che fai? Mi spii?» lo apostrofò lei, ma il giovane si limitò a strabuzzare gli occhi. Intorno a loro i giovani aspiranti andavano avanti e indietro, chiamati dalla voce dell'insegnante al piano superiore. L'inserviente dunque aprì lo zaino del ragazzo e vi trasse il blocco. «Non mi sono fatta i fatti tuoi, lo avevi lasciato aperto...» specificò, e porse il blocco a Hayden, sempre ammutolito. «Hai un nome bizzarro, ma ti si addice, tuttavia disegni bene... Non mi sembrava ci fossimo visti, io e te.»

«No» fu tutto quello che il ragazzo riuscì a dire. Intanto la donnona al piano superiore urlò che era tutto e che chi non era stato chiamato poteva andare. Hayden crollò il capo e fece per andarsene.

«Aspettami!» La signora cicciottella con lunghi capelli bianchi e crespi si allontanò verso lo sgabuzzino, vi prese un mantello nero, un buffo cappello da strega e, scontato ma vero, una scopa di saggina. Quando tornò da lui gli disse: «Oggi è Halloween, ragazzo! Non avrai pensato che sono una vera strega?!» Poi rise e la sua voce echeggiò stridula nel corridoio. Quando si ricompose, Hayden la fissava sbalordito e lei gli fece l'occhiolino.

«Hayden» cominciò lei, «hai un gran talento in queste mani, è qui la tua vera anima» e dicendolo gli prese la mano destra, «tuttavia non puoi farti largo nella vita solo con questa.»

Si salutarono fuori dal teatro. La donna indossò mantello e cappello e Hayden le fece un solo cenno in segno di saluto. Quando il ragazzo tornò a casa, quel tardo pomeriggio d'autunno, non volle mangiare né parlare. Non riuscì nemmeno a prendere sonno. Le parole della donna gli riempivano la mente finché, in piena notte, un unico pensiero si fece largo tra gli altri. Si alzò dal letto praticamente intonso, uscì dalla sua camera e scese fino alla cantina dove suo padre teneva tutti i suoi attrezzi. Doveva far qualcosa. La sua vita non poteva continuare così, senza amici, senza futuro. Si guardò intorno e, illuminata da un raggio di luce lunare fattosi largo dalla piccola finestra aperta del seminterrato, vide un'ascia. Cercò di non esitare. La prese, appoggiò il polso sul tavolo da lavoro e librò in alto la mano sinistra, l'ascia stretta nel pugno, e poi giù con un colpo secco.

La casa, forse l'intero quartiere, fu svegliato dall'urlo del ragazzo. Quando i genitori accorsero videro Hayden sul pavimento, privo di sensi e in un lago di sangue. Lo soccorsero subito, chiamando l'ambulanza, e immediatamente si accorsero che la mano destra del figlio era sparita. Mentre i soccorsi arrivavano, e Hayden rimaneva esanime, la cercarono, ma senza avere successo.

***

La luna era alta e in lontananza Mano udì le sirene di un'ambulanza che si avvicinava a gran velocità. Quando quest'ultima fu più vicina, si nascose dietro una grossa zucca intagliata che sua madre, la madre di Hayden, aveva sistemato sul prato davanti casa. Era strano muoversi, come una specie di ragno, sulla punta delle dita, ma gli parve essere una cosa naturale. Attese che gli operatori lasciassero la lettiga e che accorressero in casa per sgattaiolare per strada, apparentemente senza una meta precisa. Dopo parecchi metri passati a vagare tra marciapiedi, aiuole e prati di villette silenziose, Mano si ricordò che non lontano da lì, comunque distante abbastanza dal quartiere da non recare disonore agli abitanti della cittadina, giaceva addormentata una villa antica e abbandonata. Si sarebbe nascosto lì, poi avrebbe deciso il dafarsi.

Quando arrivò, vide il grande cancello in ferro battuto, semi arrugginito, aperto quel tanto per farlo passare. Non indugiò oltre. Prese il sentiero verso l'imponente ingresso, si arrampicò a fatica su per i gradini e si accostò alla porta in legno, alta almeno tre metri; vi appoggiò due dita per cercare di spingerla quando sentì che quella si apriva da sola. Da dietro comparve l'inserviente del teatro. La donna bassa e paffuta gli scoccò un sorriso.

«Ah... sei tu? Aspettavamo un maggiordomo, ma tu sei comunque il benvenuto nella famiglia Addams!»

Leggi gli altri capitoli

Aggiornamento del 25\01\2022

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Morte in diretta

è solo una delle storie contenute nella raccolta Le storie di ChaBlackCat scritte in occasione di Halloween per diversi profili ufficiali Wattpad. Questa ha meritato la vittoria del contest da parte di WattpadBrividoIT.

Mi riscossi lentamente, destato da una lugubre melodia che arrivava dal salotto. Avevo la bocca impastata e il palato viscoso per i bagordi della sera prima: Halloween quell'anno cadeva di Domenica e quel locale in centro aveva deciso di festeggiarlo la sera prima, sabato trenta Ottobre. Di fatto, Halloween era proprio quella mattina.
Trovai una caramella sul comodino e me la cacciai in bocca per eliminare il cattivo sapore dell'alcool che mi aveva anche causato una forte emicrania.
Barcollai al piano di sotto per spegnere la televisione ma inciampai in qualcosa di grande e che indossava una abito bianco di pizzo. Mi sbagliavo, non era "qualcosa", bensì "qualcuno". Urlai, poi mi chinai sulla ragazza che giaceva immobile sul pavimento di casa mia. Era fredda e, cosa che mi colpì tra le altre, aveva un'iride bianco, una lente, e il vestito imbrattato di sangue. La scossi invano, era ovviamente morta e quella dannata televisione sembrava creare il sottofondo perfetto per una scena come quella.
Aggiornamento del 19\01\2022
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